John
Williams scrive un incantevole romanzo sulla vita apparentemente desolata di
William Stoner. Le origini umilissime, la fatica, la fame, l’infelice
matrimonio ma anche la laurea e l’insegnamento sembrano le pagine di un uomo
drammaticamente destinato all’oblio. Tutto sembra scorrere in modo
inesorabilmente mediocre, nella monotonia di una biografia piatta, in una sorta
di apatia del destino, nella quieta abitudine all’umiliazione.
Che
John Williams riesca a tradurre tutto questo in un capolavoro è quasi un
miracolo, di sensibilità e di stile. La scrittura pacata e densa riesce a
sviscerare le pieghe della storia e dei personaggi, a trasformare in poesia
lucida e accorata ogni passo, a trasmettere l’intensa energia della tristezza, della
rassegnazione, del travaglio umano.
E,
forse soprattutto, a indagare nel senso profondo dell’esistenza, nel patrimonio
di radici e sentimenti, nelle logiche culturali e negli affanni morali. Tra
miseria e virtù, ecco.
E’
bellissimo il sussulto sentimentale di Stoner con Katherine Driscoll. Ma ancor
più lo sono i momenti autentici di libertà della dignità che, negli ultimi
capitoli, sono molti e veementi. L’ insegnante “indefesso” William Stoner (come
lo definivano i colleghi,a metà tra l’invidia e il disprezzo) <conosceva il
mondo come pochi, nell’intimo della sua anima, in fondo alla sua memoria,
restava il ricordo degli stenti, della fame, della sopportazione e del
dolore>.
Era
forte, William Stoner. E in punto di morte <la coscienza della sua identità
lo colse con una forza improvvisa, e ne avvertì la potenza. Era se stesso, e
sapeva cosa era stato>.
John
Williams, Stoner, Fazi editore.
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