“I corpi docili di noi
detenuti. Decidono quando e quanto dobbiamo mangiare, quando e quanto dobbiamo
dormire, quando e quanto dobbiamo parlare”.
L’esperienza
dei libri è nello spazio infinito. Anche quando l’infinito è chiuso in un
carcere.
Il
corpo docile è un viaggio doloroso, per Rosella Posterino e per i lettori è la
sfida del bianco e del nero, è la prova che esiste quello che non vediamo, è l’urlo
orribile della verità. D’altra parte è anche un intenso, commovente romanzo di
attimi e parole, di coscienza e di orrore, di respiro e di vita. Perché gli
aliti umani sono vita, anche quando non ci pensiamo, anche quando ne accettiamo
la sofferenza.
Capire,
forse. Il corpo docile nasce da quel bisogno, magari. O dall’ostinazione di
toccare l’angoscia per raccontare qualcosa che svegli dall’indifferenza.
Milena
è nata in carcere, non ha imparato a “sentirsi umana”. E’ una pugnalata,
questa. Ha ereditato la colpa dalla madre, Milena. E il carcere annulla l’orizzonte,
chiude le porte al cielo, sbava i sorrisi, scava dentro un delirio.
Forse
qualcosa di Milena può restare dietro le sbarre per sempre. Quella di Milena è
una storia diversa perché quello è il
destino nel quale ha aperto gli occhi. Come Eugenio, il bimbo di Rosa, un’altra
detenuta di Rebibbia.
Poi
Milena incontra il giornalista Lou Rizzi ed è un appuntamento con se stessa,
con il desiderio, con la paura, con la responsabilità. Un salto.
Il
corpo docile, un libro per anime forti.